Il tuffatore spagnolo Javier Illiana, uno tra i maggiori esponenti dei tuffi iberici, da qualche tempo è sparito dalla scena delle competizioni: cosa gli è successo? Purtroppo dopo le Olimpiadi di Londra “Javi” ha scoperto di essere affetto da una malattia vertebrale che potrebbe lasciarlo paralizzato.
“Fa male, fa malissimo, così tanto che non riesco a dormire e quando riesco finalmente ad addormentarmi, il dolore mi sveglia […] Adesso ogni tuffo è un dolore: l’entrata in acqua è troppo aggressiva, qualsiasi errore è pericoloso e il trampolino mi martirizza. […] Quando sono sul trampolino e vado in giù, per poi salire, sento molta pressione alla schiena. Prima non ci facevo caso […] È duro da accettare ma ce l’ho fatta. E io continuerò a tuffarmi”. Javier Illana (Leganés, Madrid, 1985) racconta della sua sofferenza, la riconosce e trema, ma i suoi silenzi sono pesanti e nascondono il peso che si porta addosso.
Vuole evitare la compassione, insiste nel dire che “tutti gli sportivi soffrono” perché “sono i lati brutti del mestiere” e che “bisogna andare avanti”, ma la sua salute è stata minata. Soffre di una malattia degenerativa chiamata spondilite anchilosante, un genere di artrite che attacca la colonna vertebrale. “Le articolazioni e i legamenti che permettono alla spina dorsale di muoversi si infiammano e le vertebre vanno a calcificarsi”, descrive il tuffatore e aggiunge “Si può arrivare alla paralisi e non c’è una vera e propria cura, però si può tornare a vivere normalmente: con il trattamento adeguato si alleviano gli effetti”. E si trova proprio lì, alla ricerca di quella cura esatta.
Nel frattempo prova a qualificarsi per Rio 2016, la sua quarta Olimpiade.
Sembra incredibile, non si dà per vinto. Eppure nel suo palmarés conta, tra il trampolino da un metro e da tre metri, un diciannovesimo posto ad Atene 2004, un ventesimo posto a Pechino 2008 e un dodicesimo a Londra 2012, il quinto posto al Mondiale di Barcellona 2013 e un bronzo all’Europeo di Budapest 2010. Ma lui vuole di più, ne ha bisogno. Nonostante non abbia gareggiato alle gare del Campionato Spagnolo di settimana scorsa, a febbraio volerà in Brasile per disputare la Coppa del Mondo.
Raggiungere la qualificazione olimpica non è troppo complicato, la otterranno i diciotto semifinalisti della competizione, ma il suo calvario e la conseguente inattività complicano la sfida fino a renderla… impossibile?
“No, no, posso farcela. Finché ci sono possibilità…” dice Illana, che racconta dagli inizi: “Alla fine del 2014 ho iniziato a sentire dei fastidi, poi dolori, ma non potevo fermarmi: dovevo fare il punteggio per qualificarmi al Mondiale di Kazan e per questo mi sono allenato per cinque mesi mentre ero già malato. Quando mi sono qualificato, allora sì, ho deciso di riposarmi e farmi visitare da diversi specialisti. Mi dissero che si trattava di una frattura all’osso sacro, mi misero a letto con l’anca immobilizzata per diverse settimane, ma continuava a farmi male e alla fine mi diagnosticarono la spondilite.”
“È una malattia genetica, non è stata provocata dallo sport. Si presenta soprattutto negli uomini tra i 25 e i 40 anni, ci sono pochi casi tra le donne. Da quando me l’hanno diagnosticata faccio degli esercizi specifici e provo a ridurre il numero di tuffi ma devo comunque continuare ad allenarmi,” commenta chi ha già passato altre disavventure dolorose: per esempio, al Mondiale 2007 fece la gara sincro dai tre metri con la mononucleosi, tuffandosi con la febbre a 40.
“Una carriera piena di felicità e disgrazie” che racconta ora nel libro No es el cuerpo, es la mente che sarà in vendita da martedì. Nelle sue 104 pagine scrive di numerosi aneddoti, ma soprattutto svelta i trucchi per superare le avversità. “Do i dettagli di alcune tecniche psicologiche che mi sono state molto d’aiuto. Per esempio il mindfulness. Consiste nel rilassare la mente: ti siedi, respiri profondamente, ti concentri e la testa va da un’altra parte. Ricevi un’emozione, che sia l’allegria o la tristezza o la paura, lavori per accettarla e ricominci. Così sono riuscito a superare questa malattia e a continuare con la mia vita,” afferma.
E così scatena una domanda già necessaria: “Con un palmarés notevole come il tuo e una condizione del genere, non pensi che sarebbe meglio ritirarsi?”. “Chiaramente mi sono posto la domanda. Sono già quindici anni che faccio parte della élite e un giorno dovrò lasciarla, ma non è ancora giunto il momento. Mi sento ancora capace,” proclama, anche se tra le sue parole si riconosce una certa paura di un futuro incerto; tutta la sua esperienza lavorativa si riduce ad un trampolino.
Un giorno si apriranno tre strade davanti a lui. Una solida: il master in gestione sportiva per cui sta studiando alla Università di Deusto; passerebbe da “organizzato” a organizzatore, una transizione non inusuale. E valuta altre due opzioni. Da una parte la televisione. Durante le due stagioni di Mira Quién Salta su Telecinco è stato allenatore di Víctor Janeiro, Sandro Rey o Falete – “già non firmo più tanti autografi!” riconosce – ha superato un corso da presentatore organizzato dalla produttrice di Sálvame e già si aspetta delle telefonate. Dall’altro lato ci sono i videogiochi, di cui è grande fan. Sta studiando anche Amministrazione dei sistemi informatici in rete con un solo obiettivo: diventare un gamer allenatore. “Un giocatore di League of Legends, per esempio, può arrivare a guadagnare 700.000 euro all’anno. Più che la maggior parte degli sportivi. Si formano squadre di cinque giocatori, si assumono un analista e un tenico e tutti vanno a vivere nella stessa casa. Penso che potrei sfruttare i miei anni di esperienza nelle gare per dedicarmi a questo tipo di cose,” commenta e per un po’ accantona il dolore.
Tornerà, sicuramente.
Fonte articolo: El Mundo
Traduzione: Noemi Imperitura