L’emergenza sanitaria da COVID-19 non ha colpito duramente solo l’Italia, ma praticamente ogni angolo del mondo, costringendo le diverse nazioni a misure più o meno restrittive in base all’ampiezza del contagio, alla serietà dei propri governanti e alla sicurezza intrinseca. Ciò ha portato, dal punto di vista sportivo, a una conseguenza inizialmente inaspettata ma che poi, con il passare delle settimane, è stata facile da comprendere: non tutti gli atleti hanno avuto le stesse possibilità rispetto anche ai paesi confinanti.
Ne abbiamo avuto un assaggio in Italia, dove non tutte le piscine per i tuffatori hanno riaperto, né lo hanno fatto nello stesso giorno, né con le stesse regole. Le prime a riaprire sono state Bolzano e il Centro di Preparazione Olimpica, seguite successivamente da altre piscine a macchia d’olio: Trieste, lo Stadio del Nuoto di Roma, Verona, Genova, Milano, Modena e Mantova hanno riaperto (con diverse restrizioni) tra fine maggio e metà giugno, mentre nelle ultime settimane si sono aggiunte anche Cosenza, Bergamo e Torino.
Nella maggior parte degli stati europei e mondiali, le piscine hanno riaperto con una capienza ridotta (tra il 25 e il 75% in meno delle presenze normalmente ammesse), costringendo a una riduzione dei turni in favore degli atleti di élite, chiamati alle qualificazioni olimpiche alla Coppa del Mondo di fine febbraio 2021. La LEN, a seguito di un sondaggio informale del mese scorso, ha tuttavia affermato che la situazione è comunque positiva almeno per i paesi europei e per gli sport acquatici, a eccezione della pallanuoto.
In Europa solo il Regno Unito continua a tenere totalmente chiuse le piscine ancora oggi: il governo britannico non ha ancora emanato le linee guida già promesse da diverse settimane, e così neppure i governi locali di Scozia e Galles. Questo costringe gli atleti di élite all’allenamento fisico a casa come negli ultimi quattro mesi, o a “chiedere ospitalità” a nazioni che hanno già riaperto. Non pochi atleti hanno espresso il loro disappunto nel vedere come sia stata data priorità alla riapertura di attività a maggiore rischio, come i pub, a partire dal giamaicano Yona Knight-Wisdom: legato a una convenzione tra la federazione nuoto della Giamaica e quella della Gran Bretagna per permettergli di allenarsi in questa nazione, decisamente più attrezzata della propria, si ritrova completamente bloccato.
Da due settimane il governo ha promesso di emanare le linee guida per la riapertura di piscine e palestre pubbliche, linee guida che però non sono state ancora pubblicate – e finché non sarà stato fatto, non si potrà sapere se e quali impianti in Gran Bretagna potranno riaprire, senza contare che ci vorrà ulteriore tempo per effettuare le inevitabili modifiche strutturali e organizzative e prepararsi alla riapertura, che potrebbe slittare ancora di un mese o due; il rischio è che alcune piscine – le più deboli finanziariamente – restino chiuse per sempre. La situazione è più che paradossale visto che la federazione irlandese ha riaperto il centro di preparazione olimpica già a inizio giugno (e dal 9 per i tuffatori).
Anche gli Stati Uniti non se la passano benissimo: in oltre un quarto degli stati le piscine restano chiuse, o si è proceduto a una nuova chiusura dopo la riapertura a seguito della forte crescita dei contagi. Negli altri, la capienza è stata ridotta all’incirca alla metà, togliendo spazio alle “seconde linee” e soprattutto ai non agonisti, che pur essendo “poco importanti” per lo sviluppo del movimento olimpico sono fondamentali per il sostentamento economico degli impianti. A questo si somma la chiusura di diverse università americane per il semestre autunnale: le istituzioni procederanno a somministrare lezioni per via telematica (la cosiddetta “didattica a distanza”), ma ciò porterà a non poter sfruttare neppure gli impianti sportivi interni agli atenei, riducendo ulteriormente gli spazi a disposizione dell’élite, e potrebbe costringere gli studenti stranieri ammessi per meriti sportivi a dover lasciare il paese.
USA Diving non esclude la possibilità di un “collegiale permanente” almeno per gli atleti di interesse nazionale, sulla falsariga della NBA, ma la recente riduzione di fondi a causa di scandali amministrativi potrebbe rendere impercorribile anche questa strada: si rischia addirittura la cancellazione delle gare anche per l’autunno 2020.
In quasi tutto il centro e sud America, nuovo epicentro dell’epidemia, gli impianti restano chiusi a tempo indeterminato o, nei paesi che stanno sfidando il buonsenso come il Brasile, semideserti per la paura di contagi, mentre l’Estremo Oriente (Cina, Giappone, Corea del Sud), il sud-est asiatico (Malaysia, Singapore) e l’Oceania (Australia, Nuova Zelanda) hanno riaperto quasi a ranghi completi da alcune settimane, sebbene con le stesse restrizioni che conosciamo anche noi. Situazione misteriosa in Corea del Nord, come sempre avvolta da un’impenetrabile cortina di silenzio.
Per il resto del mondo, le chiusure riguardano essenzialmente problematiche a livello locale a seguito di focolai improvvisi (come la capitale cinese Beijing, che ha chiuso tutti gli impianti sportivi per circa un mese a seguito di un focolaio nella periferia) o di aumenti importanti dei contagi in zone tuttavia piuttosto circoscritte (come Belgrado negli ultimi giorni).
Foto: Loop Jamaica